La settimana scorsa ero nella spiaggia di Buggerru, completamente deserta.
Passeggiando con mia moglie abbiamo notato che sulla sabbia era restata traccia di un gran numero di passaggi: cani, gatti, lucertole, uccelli di vario tipo, molte impronte di calzature diverse e addirittura il segno di qualche mezzo a due ruote. Abbiamo cominciato a fotografarle, un po’ per scherzo.
Poi abbiamo continuato, perché ci divertiva l’idea di farle vedere alle nostre nipoti, di sei e nove anni, figlie di mia sorella.
A un certo punto mia moglie mi ha detto: «Potremmo stamparle tutte, e a parte fare delle altre stampe con i nomi di chi ha lasciato l’impronta. E poi giocare a riuscire ad accoppiarle correttamente».
Aveva inventato un gioco: non originalissimo, ma un gioco.
E io subito dopo ho pensato che siccome era un gioco che si poteva giocare una volta sola, perché poi si sapeva la soluzione, si sarebbe potuto fare le stampe a forma di tessere del Memory e inventarne così una versione casalinga: si tengono le tessere tutte coperte e man mano bisogna fare le coppie, nel modo solito; solo che non si devono trovare due coppie uguali ma associare a ogni foto la sua didascalia. Non è un gioco originalissimo neanche questo, ma è comunque carino: alle bambine sarebbe piaciuto.
In un’oretta avevamo inventato due giochi: non male.
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La mia borsa ha una ventina fra tasche e scomparti diversi. Siccome sono un tipo metodico le uso tutte: in una il portafogli, in una il libro, lì il portamatite, là un hard-drive portatile e così via.
Un pomeriggio nel quale dovevamo fare da baby sitter alle bambine le ho fatte sedere sul divano, ho messo la borsa per terra e ho detto loro: «Adesso facciamo il gioco della perquisizione».
A turno le chiamavo e gli davo venti secondi per trovare i vari oggetti che tengo nella borsa: «… gli occhiali di zio Robi», «… le chiavi di casa di zio Robi». Si sono divertite e eccitate moltissimo. Moltissimo.
Quando finalmente hanno scovato il cellulare, che sta in una tasca della tracolla e sino ad allora gli era sfuggito completamente, c’è stata un’ovazione.
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Inventare giochi non è difficile: io e Maria Bonaria ci siamo allenati, ma in sé la cosa non è complicata. Bisogna solo volerlo fare.
Naturalmente i giochi per gli adulti possono essere molto più strutturati e anche più complessi: si possono creare giochi da tavolo, giochi con le carte, giochi di narrazione e di ruolo, videogame. Ma il principio non è diverso.
Fra gli appassionati di giochi si parla spesso di attitudine lusoria: si intende con questo termine la disponibilità a giocare, a entrare nel cerchio magico del mondo del gioco e a lasciarsi andare alle meccaniche che lo animano. Ci sono diversi tipi di giochi e diverse soddisfazioni che danno, quindi la disponibilità a giocare può essere differente nei vari casi a seconda dei gusti del giocatore, ma giocare comporta sempre la disponibilità a fare questo primo passo decisivo.
Si pensa meno al fatto che esiste un altro tipo di attitudine lusoria, ed è quella di chi crea giochi: la disponibilità, cioè, ad esprimersi tramite il gioco, a tirar fuori quel che si ha dentro, visione del mondo, passioni, desideri, rabbie, credenze, e a farlo vedere e comunicarlo agli altri tramite un gioco. So che a molti può sembrare strano, ma è assolutamente equivalente a voler fare lo stesso con una poesia, un articolo, una canzone o un’opera d’arte, tutte cose che consideriamo normali.
Su questo stesso sito c’è un esempio di gioco di questo tipo: è Negoziato di pace. L’ho scritto perché l’assedio di Sarajevo mi faceva pizzicare il cuore e volevo dire la mia. E per dire la mia ho fatto un gioco.
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Naturalmente dopo che uno ha deciso di dire la sua facendo un gioco, come per tutte le altre cose, c’è un po’ da imparare. Per esempio puoi cominciare a guardare la realtà in termini di strategie contrapposte, o di mosse e contromosse, e chiederti come le potresti tradurre in un gioco. Oppure devi imparare che non puoi costringere i giocatori a fare quel che vuoi tu: tu il gioco glielo dai in mano, poi loro devono essere liberi di farne ciò che vogliono. Devi imparare che ci sono differenti tipi di giocatori, e di divertimento. Devi imparare a darti un metodo, certe volte.
Ma in sé non è diverso da imparare a suonare la chitarra.
Certo, ci sono cose più esotiche: la regola zero, che so. Ma anche quando si suona la chitarra ci sono cose di base e poi c’è Yngwie Malmsteen, ma è normale.
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Di tutte queste cose, grazie a un cortese invito di Sustainable Happiness, parleremo in un laboratorio durante il festival Alig’Art.
Quando? Il 12 novembre alle 10.30. Dato il contesto ci concentreremo sui gioco politici o sociali, ma la definizione è molto lasca e c’è spazio per chiunque, anche senza esperienza, vuole cominciare ad affacciarsi al mondo del game design.
Ed entrare nel cerchio magico
One response to “La nostra attitudine al gioco”
[…] articolo l’ho scritto per il blog dei Fabbricastorie la settimana scorsa. Lo riporto qui per tenerne traccia e anche perché magari non tutti quelli che […]